#BugsComics – La parola a A. Guglielmino e G. Fumasoli

Bugs Comics – Gangster

Questa settimana intervistiamo Gianmarco Fumasoli, co creatore della casa editrice Bugs Comics e autore egli stesso e Andrea Guglielmino, scrittore, fumettista e giornalista.

I due stanno per presentare al Lucca Comics, insieme ad altri, Gangster, il noir di cui vi avevamo parlato qualche settimana fa.

Iniziamo dalle domande per Andrea, detto Ang, della nostra Silvia Azzaroli

Tra tutti i generi trattati quale preferisci? Ti sei ispirato a qualcosa mentre scrivevi? Tipo alla tua saga preferita, Terminator? Preferisci scrivere libri o fumetti?

Sicuramente Terminator mi piace moltissimo e in particolare i primi due episodi, ma sono abbastanza eterogeneo. Sono cresciuto con il cinema di intrattenimento degli anni ’80: Star Wars, Indiana Jones, Ritorno al Futuro, poi ho cominciato ad apprezzare gli autori, esulando dal genere. Devo dire che il mio lavoro portante resta sempre quello di giornalista cinematografico quindi vedo veramente di tutto. Credo che sia anche uno dei miei punti di forza quando scrivo fumetti. Mi ispiro a tutto ma quasi mai con la consapevolezza di farlo. A volte prendo lo spunto da qualche film drammatico minore che ho visto in qualche festival e ci aggiungo l’elemento horror o fantascientifico, altre volte parto dal finale di una storia che conosco per farne le premesse di qualcosa di nuovo. Credo che valga per tutti gli scrittori, è un flusso. Niente si crea dal nulla e assorbiamo tutto come spugne. A volte mi diverto a tornare sulle mie storie dopo un paio d’anni e cercare di capire quali influenze ci si sono riversate dentro. Oppure me lo dicono gli altri: ‘questa cosa mi ricorda il tale film’. E io dico: ‘caspita, hai ragione’. L’importante è chiaramente aggiungere l’elemento personale, e portare avanti lo ‘spunto’ verso qualcosa di nuovo. Ogni parte del mio percorso si integra. Essere uno studioso di cinema mi permette di capire meglio i meccanismi di costruzione di una storia, me li ritrovo poi quando scrivo fumetti. E scrivere storie mi permette di essere più accorto e comprendere meglio gli sviluppi di una trama che vedo stesa al cinema. Ma anche delle inquadrature, dell’illuminazione. Cinema e fumetto sono linguaggi che hanno molto in comune. In generale, diversifico molto la produzione.

Per ora ho pubblicato saggi lunghi ma mi sono rivolto alla forma breve per quanto riguarda la narrativa, sia nel fumetto che nei racconti. Non ho esperienza di romanzi, certo mi piacerebbe, però posso dire che scrivere storie brevi è molto appagante e molto più complesso di quanto si possa immaginare. Deve essere tutto concentrato, non puoi permetterti di perdere l’attenzione del lettore, spesso devi ragionare sul colpo di scena o sul ribaltamento di prospettive. E’ un po’ come scrivere ‘Ai confini della realtà’, mi piace tantissimo. Sui generi, ho iniziato con l’horror che sicuramente è uno dei miei preferiti, anche se ora non va più molto di moda. Ma, per citare la tagline di Bugs Comics, per me non conta tanto cosa si racconta, ma come lo si racconta.

So che stai iniziando ad essere considerato un influencer. Come la vivi?

Non lo sono. Un influencer, similmente a un testimonial pubblicitario, presta immagine, firma e voce alla promozione di un prodotto sotto compenso dell’azienda produttrice stessa. Io non lo faccio mai. Anche perché non potrei. La deontologia giornalistica lo vieta – salvo a titolo gratuito e per iniziative con scopi di natura sociale, o di beneficienza – e rischierei la radiazione dall’albo. Non vedo perché, dato che amo fare il giornalista ed è un lavoro bello e ben pagato. Mi reputo invece uno scrittore ‘a tutto tondo’, mi piace il giornalismo ma amo cimentarmi in altri campi: racconti, sceneggiature per fumetti, testi per vignette (prima ancora della realizzazione grafica), per la radio, la saggistica. Scrivo sempre, è un flusso continuo. Dunque scrivo anche su facebook, e a volte i miei status hanno successo. Uso la bacheca come spazio personale dove raccontare storie in maniera diversa, magari con una semplice battuta, una riflessione, un aforisma. O anche un selfie, perché no. Quindi forse quello che mi accomuna, seppur molto vagamente, a un influencer è questa forma di linguaggio, che ho integrato nel mio bagaglio di comunicazione. Ma anche in quel caso, uso la foto per narrare qualcosa, in poche righe, e condividere un’esperienza – come quando incontro e intervisto le star del cinema ai festival – magari accompagnando tutto con una frase ironica, non promuovo altro se non l’esperienza stessa. Al limite, segnalo quando esce un mio libro, o quando passo in radio. Si può dire che sono influencer per conto di me stesso. Inoltre non ho praticamente nessun ‘follower’. Io ho gli amici. Gente che ho incontrato davvero e con cui ho fatto un pezzo di percorso, a cui sono legato professionalmente o umanamente o con cui comunque comunico quasi quotidianamente in uno scambio il più possibile paritario.

Quando sono in un evento pubblico vengono a salutarmi e a stringermi la mano, non ad ammirarmi o a odiarmi da lontano. La mia rete l’ho costruita andando in giro per strada, nel mondo, nei festival, nelle fiere, negli uffici che ho frequentato. Non stando seduto al pc. Quando vedo un film e ne parlo, ad esempio, non ho mai l’intenzione di ‘influenzare’ qualcuno. Mi dispiace quando mi dicono ‘se non è piaciuto a te allora non ci vado’. Non è quello il punto. A un altro potrebbe piacere. Dico sempre ‘vacci lo stesso, ti fai la tua idea e poi ne parliamo’. E’ così che va avanti, trovando un punto di incontro. Cercando i difetti dei film che ci sono piaciuti e i pregi di quelli che non ci sono piaciuti. Non esiste la perfezione ma così ci miglioriamo noi come spettatori e contribuiamo nel nostro piccolo a migliorare l’offerta che arriva in sala. Ovviamente, lo stesso vale per tutto quello che non è cinema, i libri, le trasmissioni televisive, i ristoranti. Naturalmente anche i fumetti, ma dato che quelli li scrivo anche, per questioni diplomatiche, raramente parlo dei fumetti degli altri. Meno influencer di così…

Parlateci meglio del noir che presenterete a Lucca, Gangster. Come mai questo genere? Io personalmente lo adoro ma so che purtroppo è trattato molto poco.

Certamente ho un’inclinazione particolare verso il ‘fantastico’, mentre invece è stata molto dura scrivere una storia per ‘Gangster’, la nuova rivista di Bugs Comics, di genere noir, che sarà presentata a Lucca. Ecco, il noir è un genere dove non puoi ‘ribaltare’ facilmente gli archetipi, perché ne è in gran parte costituito. Se lo fai, non è più noir. Ma al contempo devi cercare di non essere banale. E’ stato difficile ma anche molto soddisfacente. Sono curioso di vedere cosa ne penseranno i lettori.


Domande di Tatiana Coquio

La rivista “Splatter”, la narrativa horror, ‘REDEZ – L’orrore’, cosa ti piace di questo tipo di scrittura e cosa ti ha portato a scrivere un racconto di questo genere?

Chiaramente c’entra la mia formazione anni ’90. Ho conosciuto l’horror con Dylan Dog e poi con i classici film slasher tipo Nightmare o Venerdì 13, che si affittavano con gli amici per farsi due risate, due spaventi e qualche bel salto sulla sedia, tutti accerchiati attorno al videoregistratore VHS che rappresentava il nostro personalissimo ‘focolare’. Trovo che ancora oggi sia un veicolo potentissimo e come insegna proprio Dylan Dog, soprattutto nella sua prima fase editoriale, è uno strumento molto forte per parlare anche di altro. In ‘REDEZ’, un racconto che è stato pubblicato sulla rivista ‘8 ½ – Numeri, visioni e prospettive del cinema italiano’ hanno trovato spazio la mia passione per il cinema di spavento italiano (il titolo rimanda chiaramente a Zeder di Pupi Avati) ma anche a un orrore che ho vissuto nella vita reale, la malattia e la perdita di mia madre. E’ stata una valvola di sfogo che però ha trovato in questa forma narrativa una potenziale chiave di comunicazione con chi magari questa esperienza non l’ha vissuta. Non avrei mai potuto parlarne in altro modo senza mettere in imbarazzo l’interlocutore. Altre volte parlo di temi sociali, in ‘Mostri n. 3’ una mia storia, Mister Babau, parla di fatto di incontro tra culture e della difficoltà di accettazione reciproca, e soprattutto del ruolo di condizionamento che in questi termini svolge l’educazione degli adulti nei confronti dei bambini. Splatter invece è stata un’esperienza diversa. E’ una rivista a fumetti, la amavo da ragazzo, ce la passavamo ‘sottobanco’ sfidandoci a reggere quelle immagini per allora così estreme. Quando è rinata, attorno al 2013, dato che avevo avuto modo di conoscere i fondatori Paolo Altibrandi e Paolo Di Orazio, mi sono subito proposto come sceneggiatore di fumetti. Ma non avevo esperienza e loro erano già pieni di storie, così ho scritto per lo più articoli di cinema. E qualche reportage a tema horror su argomenti particolarmente ‘a tema’, come il delitto der ‘Canaro’, trovando una forma a metà tra la narrazione e il reportage giornalistico.

Da Facebook a sito internet – Come nasce il progetto umoristico ‘Vendicazzari Uniti!!!’?


Per puro gioco e spirito goliardico. Nel mio passato c’è stata anche un’esperienza come vignettista satirico, per ‘Cuore’ (nell’incarnazione di inizio 2000 guidata da Paolo Aleandri) e ‘Veleno – Settimanale di satira mordente’. Per lo più trattavo temi politici e sociali e, per stare sul pezzo, sempre più spesso mi ero spostato dal disegno tradizionale al collage fotografico realizzato con il Photoshop, una forma di creatività bizzarra che se da un lato richiede tempi minori può risultare molto efficace proprio per l’effetto surreale che il mezzo permette. Scherzando dico spesso che la satira politica in Italia è morta quando i politici hanno cominciato a prendersi in giro da soli. Attorno al 2009 avevo già cominciato a fare il giornalista per il cinema e con un gruppo di colleghi particolarmente simpatici ci divertivamo a tirar fuori ‘calembour’ e giochi di parole sui personaggi e sui titoli dei film. Un giorno qualcuno associò la pubblicità del noto aperitivo alla mitologia di Thor, ‘Odino, dammi un crodino!’.

Da lì a realizzare la vignetta fu un attimo. Inizialmente le condividevamo in una ristretta cerchia di persone solo per farci due risate, ma pian piano il pubblico è cresciuto, attraverso il sistema spontaneo di condivisioni che però aveva uno svantaggio: spesso, come succede in rete, non viene minimamente riconosciuto l’autore della vignetta o della battuta. Addirittura alcune volte le nostre firme venivano cancellate. Registrare il marchio e mettere su il sito è stato un modo per garantirsi un minimo di protezione, solo a livello, diciamo così ‘artistico’, dato che il progetto è, e sempre sarà, privo di ogni fine lucrativo. Resta un gioco, ma ora giochiamo in più di 11mila persone – contando i like sulla pagina facebook – e il numero di partecipanti è in crescita. Le regole sono semplici: chiunque può suggerire una vignetta, se fa ridere ed è abbastanza originale io la realizzo, dividendomi il lavoro con Mauro Felici Ridolfi, in arte Ferim, che da quest’anno mi affianca, perché la richiesta è parecchia e a starci dietro da solo, considerando che devo dare priorità a tutto quello per cui invece vengo retribuito, mi era diventato impossibile.

Antropocinema – La saga dell’uomo attraverso i film di genere è stato presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, com’è stata l’esperienza sul “Red Carpet”?

Racconterò due storie, come nel film Vita di Pi. Nella prima ho fatto il red carpet assieme al mio vecchio amico Michael Keaton, che ha amato molto il libro al punto di farselo tradurre in inglese per poterlo comprendere appieno. Con noi c’era Emma Stone (era lo stesso anno di Birdman), che mi ha folgorato con uno sguardo quando ha capito il testo era di impostazione antropologica. “Adoro gli uomini intelligenti”, mi ha detto sorridendo. Stavo quasi per svenire quando un gruppo di fotografi ha catturato la mia attenzione urlando il mio nome a squarciagola e abbagliandomi di flash. Michael si è anche leggermente risentito: “Ehi amico, così mi togli l’attenzione”, ma tutto si è risolto con una pacca sulla spalla e una bella bevuta di Sambuca.

Nella seconda il libro è stato presentato all’Italian Pavilion, lo spazio dedicato agli eventi italiani parallelo alla Mostra, c’era un buon numero di persone, circa una trentina. Per la presentazione di un libro è parecchio. Qualcuno lo ha anche comprato, mi ricordo in particolare il bravo attore Guglielmo Favilla. Con me c’erano il mio amico Marco Lucio Papaleo, all’epoca responsabile della sezione cinema di Everyeye.it con cui il libro è nato in collaborazione (ora si è spostato su altri lidi), e un’altra collega e amica che stimo tantissimo, Eva Carducci, che forse avrete visto qualche volta in tv ospite da Marzullo o in rete a intervistare qualche star hollywoodiana. E’ bella quanto Emma Stone ma parecchio più alta, ha moderato l’evento avendo giustamente cura di mettersi i tacchi alti per farmi apparire come un Hobbit. Io mi sono anche leggermente risentito: ‘Ehi bella, così mi togli l’attenzione”, ma ci volgiamo bene e quindi tutto è finito con un abbraccio e una bella bevuta di Prosecco. Anche in questo caso c’era un fotografo, Matteo Mignani, che ringrazio per gli scatti bellissimi che ancora utilizzo quando mi voglio bullare. Voi, quale storia preferite?

Domande di Sara Canini

C’è un autore che ti ha influenzato e che influenza ancora il tuo lavoro?

Come giornalista non ho un modello specifico, piuttosto molti dei colleghi con cui lavoro fianco a fianco, tutta la redazione di CinecittàNews. Sono cresciuto con loro ed è lì che ho imparato il mestiere sul campo. E poi ho in mente delle riviste, più che dei nomi. Da bambino già leggevo ‘Ciak’, mi appassionava esattamente quanto i fumetti, e poi le grandi riviste di videogiochi, ‘Zzap!’, ‘The Games Machine’ e compagnia, credo che abbiano formato il mio approccio analitico ma non troppo accademico, anche se poi sono finito a parlare d’altro, così come ‘Nocturno’. Non mi piacciono gli studi o le recensioni che sono comprensibili solo a pochi eletti, con troppi voli pindarici. Forse perché al cinema non ho un approccio teorico. Non l’ho mai studiato all’università. Ne ho imparato il linguaggio mutuandolo da quello dei fumetti, inquadrature, piani, campi, espressioni. Sono elementi comuni ai due media. Mi piace che quello che scrivo sia alla portata di tutti, anche quando faccio il saggista. Anche la mia formazione mi influenza molto. Ho studiato Filosofia con indirizzo antropologico. Probabilmente non sono la persona giusta per fare da ‘guida per gli acquisti’ (e questo si riallaccia al discorso che facevamo prima). Posso trovare elementi interessanti anche in un film che tutti giudicano orrendo. Se invece volete uno sguardo con un’angolazione un po’ diversa, eccomi. D’altro canto non sarebbe stimolante fare quello che già fanno tutti. Come sceneggiatore di fumetti, potrei indicare molti autori che mi piacciono e che certamente mi hanno influenzato, ma come ho detto prima dato che mi cimento con storie per lo più brevi a ispirarmi sono le favole tradizionali, oppure i racconti di Dino Buzzati, o magari i vecchi telefilm con storie singole come ‘Outer Limits’ o ‘Ai confini della realtà’.

Le trame horror vengono spesso maltrattate al cinema, eppure ci sono rappresentanti degni di nota tra le fila dei registi, basti pensare al nostro Dario Argento. Nella narrativa horror, che hai vissuto da vicino con la collaborazione con ‘Splatter’, c’è lo stesso pregiudizio o ci si propone a un pubblico meno tendente al facile pregiudizio?


‘Splatter’ conosce molto bene questo tema. La rivista ha una storia molto particolare. Nasce alla fine degli anni ’80. Ne
l ‘90 alcuni esponenti della Democrazia Cristiana e del Partito Comunista Italiano presentarono all’allora governo Andreotti un’interrogazione parlamentare allo scopo di “tutelare i minori dalla violenza morale che viene perpetrata nei loro confronti, sia coi fumetti che coi racconti” e chiedendo “una ricognizione più precisa delle case editrici, degli autori, e perfino ispezioni nelle edicole”. A questo genere di situazione si ispirò Tiziano Sclavi per uno storico episodio di Dylan Dog, ‘Caccia alle streghe’. Il paradosso è che la rivista beneficiò di tutta questa pubblicità gratuita, arrivando a vendere un numero considerevole di copie per un prodotto così di nicchia, ma come tutti i fenomeni svanì in fretta e presto venne chiusa, pur restando di culto nei cuori degli appassionati. Tra cui c’ero io. Questa fase l’ho vissuta solo da lettore, avendo preso parte ai lavori soltanto durante la rinascita di tre anni fa. Di tutto questo parla molto bene il documentario ‘Splatter – La rivista proibita’, a cui ho partecipato come produttore oltre che con dei brevi contributi video.

Mostri nasceva proprio come ‘sorella gemella’ di Splatter, ed ha avuto sorti simili, rinascita compresa, che tutt’ora dura. Moralismi a parte, credo che l’horror sia sempre stato un genere ‘di nicchia’. Del resto proviene dalle favole, che a loro volta sono rinarrazioni aggiornate di riti e miti antichi e ancestrali, che hanno a che fare con il sacrificio, spesso cruento, con i culti della terra, e quindi con i morti, la resurrezione, la crescita del grano, i cicli delle stagioni. Dopotutto, pensiamo a quanti elementi horror ci sono anche nella religione cristiana, tra martirii, crocefissioni e sacrifici. E il cristianesimo arriva nell’Impero Romano proprio come culto misterico, ovvero, dedicato a pochi iniziati. Naturalmente, ci sono dei cicli. Negli anni ottanta e novanta l’horror era una moda, anch’io l’ho conosciuto così. Aspettavamo i film slasher come i ragazzi di oggi aspettano i cinecomic, erano le nostre ‘saghe’. Erano più facili da realizzare, a volte con sofisticati trucchi prostetici, a volte con la coratella come si faceva in Italia, di un film di super-eroi, e attraevano i ragazzi per tanti motivi. C’era la voglia di mettersi alla prova, di ‘superare la paura’ proprio come durante un rituale iniziatico, e per rimorchiare erano una manna. Ti mettevi vicino alla ragazza che ti piaceva e l’abbraccio ci scappava… a meno che nel sedile dall’altra parte non ci fosse qualcuno più figo di te. Lì sì che era orrore. Poi c’era Dylan Dog, in Italia una vera rivoluzione che portava il genere a livelli più alti, usandolo come ‘mezzo’ per parlare d’altro: di società, di letteratura, di filosofia, di poesia. Era un fenomeno di massa, altro che pregiudizio. Piaceva anche ai genitori, nonostante le scene splatter. Solo che, semplicemente, ora il fenomeno è scemato. I motivi sono parecchi, ma quello che mi salta subito alla mente è: in tempi di terrorismo internazionale, in cui la percezione media è che rischiamo di saltare in aria da un momento all’altro per l’opera di un pazzo, chi ha paura di demoni ungulati, serial killer, o psicopatici con la faccia di cuoio? Probabilmente il genere sta lavorando per rinnovarsi, e tornare a fronteggiare il grande pubblico. Ci vuole tempo, ma guardiamo ai risultato al box office del nuovo It, che in America è già diventato l’horror più remunerativo di tutti i tempi, superando L’Esorcista. Direi che è piuttosto incoraggiante.

Inutile dire che sei impegnato su più fronti. Qual è la veste che ti senti maggiormente tua?

Come dicevo prima, per me è un flusso costante. Una cosa si lega all’altra. Molti si stupiscono del mio alternare saggi seriamente impostati e pezzi di analisi rigorosa sul cinema, storie a fumetti molto dark a vignette e frasi basate su battute sciocche, giochi di parole e associazioni bislacche. Per me è tutto molto semplice e naturale: l’umorismo, per esempio, è una cosa serissima. Se una cosa fa ridere, non significa che è meno importante. L’approccio è analogo, cambia solo il contenuto. Così come osservare l’architettura della trama di un film mi aiuta tantissimo a stenderne una per un fumetto, ma anche il contrario: essere un autore mi rende un osservatore e uno spettatore migliore. Ribadisco: per me il punto è scrivere. Se mi si presenta l’occasione di scrivere qualcosa di divertente o di interessante – e ciò vuol dire, che qualcuno a parte me lo trovi interessante, un editore, o il responsabile di un sito, soprattutto se me lo vuole pagare – lo faccio. Al di là del genere e del formato. Recentemente ho scritto un racconto breve, Maniaci Seriali, una specie di commedia noir sulla dipendenza da serie televisive che ha vinto il primo premio di un concorso chiamato Dipendenze, ed è stato pubblicato sull’omonima antologia di MdS Editore. Mi sono divertito e ho imparato qualcosa. Ho anche illustrato un libro per bambini. Segno e scrittura vanno a braccetto, anche se credo di cavarmela molto meglio con le lettere che con la matita. Questo sì, la mia scelta l’ho fatta. Disegnare mi piace ancora ma non vedo perché fare tutta quella fatica quando ci sono in giro disegnatori molto più bravi che possono farlo per me.

Domande a Gianmarco Fumasoli di Tatiana

Ho     letto che per te Dylan Dog è stato il fumetto di passaggio dalla   lettura “infantile” a quella più “matura”, ripensandoci ora     cosa ti aveva colpito di più? Il disegno, la storia, la     caratterizzazione dei personaggi?

Intanto buongiorno a tutti e grazie per l’interesse nei confronti della nostra realtà. Di Dylan Dog mi colpì tutto; avevo 11 anni e, di conseguenza, facilmente impressionabile, ma ricordo come fosse ieri la sensazione di angoscia e di paura, il fascino di una Londra resa protagonista degli eventi e, soprattutto, una persona normale, come sarei potuto essere io, messa a confronto con qualcosa di più grande e di sconosciuto. Mi affacciavo all’horror da poco e non avevo ancora dimestichezza con la figura dello zombie, ricordo che mi misi nei panni del marito di Sybil Browning durante la lettura; credo che il fascino del morto vivente “prese vita”, nella mia mente, proprio con quella lettura.

Cosa     ti ha spinto ad aprire una casa editrice e come nasce la tua     collaborazione con Paolo Altibrandi?

Ho sempre voluto fare fumetti, senza ombra di dubbio. C’è chi sognava di fare l’inventore, chi l’astronauta; io volevo fare fumetti. La vita poi ti porta attraverso strade difficili da battere e spesso non hai a disposizione scorciatoie quindi ho dovuto aspettare il momento giusto che è arrivato a 39 anni suonati. Ho conosciuto Paolo Altibrandi con Splatter, aveva appena rilanciato la rivista e io cercavo in tutti i modi di collaborare con la ESH (la casa editrice del nuovo Splatter); portavo le copie in edicola, facevo pubblicità in fiera, li aiutavo negli eventi, etc. etc.

Quando la ESH decise deciso di interrompere gli inediti ho cercato di coinvolgere gli autori e gli addetti ai lavori che, improvvisamente, si erano ritrovati fermi e Paolo Altibrandi è stato il primo ad accettare la sfida. Paolo è una persona molto dinamica e con un entusiasmo fuori dalla norma e anche se tra i due è quello che ha più i piedi per terra ha creduto da subito nella visione che gli ho proposto.

Com’è stato collaborare alla creazione di un videogioco? Quali differenze     ci sono rispetto alla realizzazione di un fumetto dato che poi il     prodotto finale è su video e non su carta.

In realtà la mia parte di lavoro nello sviluppo del videogioco era, comunque, la creazione della storia. Non sono rientrato più di tanto nei concetti di design o di regole di gioco se non per ciò che era limitato al mio ruolo anche se il coinvolgimento su più fronti era inevitabile. Di fatto io dovevo dare un background ai vari personaggi e alle razze aliene (il tema era la fantascienza) e strutturare i vari “capitoli” del videogioco. Ad andare a stringere, un lavoro molto simile a quello che faccio oggi.

Mostri   e Alieni l’idea da dove nasce e come mai un’antologia? Ma     soprattutto cosa ti ha spinto a trattare questo argomento e in che     modo hai/avete scelto la storie da inserire.

L’idea di base è quella di far crescere la BUGS per come racconta e non per cosa racconta. A prescindere dal genere che andremo ad affrontare vorrei che il lettore si affacciasse alle nostre testate per il modo in cui affrontiamo la narrazione e questa cosa già sta funzionando. Mostri è il primo prodotto semplicemente perché volevo omaggiare una delle riviste che mi hanno formato negli anni ’90 (Il Mostri della ACME) e anche perché la maggior parte degli autori BUGS, veniva da Splatter e l’horror era già nelle nostre corde.

Alieni prima e Gangster dopo, sono semplicemente il logico seguito di quello che è il piano editoriale della BUGS da qui al 2020. Proseguire con le pubblicazioni “di genere”, affrontando tematiche differenti mantenendo sempre e comunque la nostra visione di come le cose vanno raccontate.

In BUGS mi occupo io di selezionare le storie ed è uno degli aspetti più lunghi e complicati della nostra produzione. Trovare la storia, il soggetto, che dia quel qualcosa di specifico alla rivista relativa è molto lungo; il resto è mestiere.

Domande di Sara

Quando hai capito che il fumetto sarebbe stato parte integrante della tua vita, al punto di farne una vera professione?

Come ho detto, la passione c’è da sempre, sin da piccolo, tanto da combattere continuamente per farla diventare una realtà. Le porte chiuse però, i “no” e le strade senza uscita sono sempre state tante quindi la certezza che ormai il treno fosse partito risale a poco più di un anno fa, quando la nostra seconda Lucca ha dato risultati interessantissimi, quando altre realtà editoriali si sono affacciate da noi con curiosità e la distribuzione ha iniziato a prenderci seriamente.

Solo allora è arrivata la mia presa di coscienza che gli sforzi fatti da tutte le persone coinvolte in BUGS, avevano dato i risultati attesi per far diventare quella di editore, la mia professione. Siamo in crescita, lenta ma costante com’è giusto che sia e quindi, adesso, è questione di tempo e di continuare a impegnarci per raggiungere gli obiettivi che ci siamo prefissati.

Qual è il percorso che ti senti di consigliare a tutti i fumettisti in erba?

Consigliare un percorso è sempre una bella responsabilità; ogni percorso è soggettivo e passa attraverso scelte e prese di coscienza ben specifiche. Quello che mi permetto di consigliare è non mollare mai. Sembra una banalità ma arrivare a fare fumetti e riuscire a viverci è molto difficile e molte persone mollano dopo aver provato con tutte le forze a uscire allo scoperto. Quello, invece, è il momento in cui bisogna tenere duro e continuare a insistere.

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