Katniss Everdeen vs Mary Sue – Seconda Parte

Ed eccoci alla seconda ed ultima parte della nostra impresa, che consiste – lo ricordiamo – nel provare che la protagonista della trilogia degli Hunger Games non è la stereotipata Mary Sue. Come già avevo accennato nel primo articolo, questa è una impresa vera e propria, perché non sempre risulterà un compito facile quello di separare Katniss dall’eroina traboccante di luoghi comuni, ma almeno posso dire di averci provato con tutte le forze.

Avevamo lasciato la nostra piccola abitante del Distretto Dodici come vincitrice insieme a Peeta, ora vediamo cosa la aspetta nei film e nei libri successivi: La ragazza di fuoco e Il canto della rivolta.

La ragazza di fuoco

Che gli Hunger Games regalino una fornitura a vita di sedute dallo psichiatra ci appare fin dalle prime battute di secondo libro e film. Katniss è preda di incubi quasi ogni notte e sfido chiunque ad uscire completamente sani di mente dall’arena. La ragazza è devastata dall’esperienza e sia la carta stampata che il grande schermo ce ne mostrano la fragilità, insieme ad accenni a Peeta, che vive esperienze analoghe. Non mi sento qui di fare paragoni con la marysuaggine, perché per me appare evidente che qui non ci sia nessun tipo di stereotipo, ma solamente un enorme stress post-traumatico, tratteggiato con pochi ma decisivi tratti.

L’arena non è stata per niente lasciata alle spalle ed il continuo indugiare delle telecamere di Capitol City – per i cui abitanti gli altri Distretti altro non sono che fonte di risorse e di reality e nulla più – è un perenne rimarcare che “agli Hunger Games non si vince, si sopravvive”, come se le vite dei concorrenti non appartenessero a loro stessi. E’ in questo frangente che la nostra Katniss si sente continuamente strattonata: da un lato deve necessariamente mostrare alle telecamere un amore che non sente per Peeta, dall’altro continua a provare affetto per il suo compagno di battute di caccia, Gale.

La Mary Sue in questo triangolo ci andrebbe a nozze, ma – come già avevo affermato nel primo articolo – la contestualizzazione di azioni e sentimenti permette di non scadere in zuccherosi stereotipi: il beneficio delle telecamere è necessario alla sopravvivenza di Katniss stessa e della sua famiglia ed è lo stesso presidente Snow che mette in guardia la ragazza. In gioco inizia ad esserci qualcosa di più grande, qualcosa che Katniss non aveva iniziato se non inconsapevolmente e unicamente per merito della piccola Rue: c’è in atto una ribellione dei Distretti e la nostra Ghiandaia ne viene eletta a simbolo, dapprima senza il suo consenso. La scintilla della rivolta è già stata accesa e l’unico modo – pare – per tenerla sedata è far sì che Katniss e Peeta recitino alla perfezione il loro ruolo di innamorati sventurati e completamente obbedienti al regime di Snow.

Quanto c’è della Mary Sue durante il Tour della Vittoria, che tocca tutti i Distretti fino alla festa finale a Capitol City? Secondo me, molto ma molto poco. Pur con tutta la buona volontà di rimanere fedele a se stessa, Katniss non si scaglia indomita contro il potere di Panem, non desidera la ribellione, soprattutto perché le è dato modo di vedere di persona quanto duramente sia repressa, ovvero quanti pagano con la vita il prezzo di aver provato ad alzare la testa. Sia il libro che il film – non mi stancherò mai di dirlo, questa trilogia è uno dei rarissimi casi in cui la trasposizione cinematografica è stata più fedele possibile ai libri – ci mostrano una protagonista che ha visibilmente paura, che si aggrappa all’affetto per Peeta per non crollare, che chiede consiglio e cerca di metterlo in pratica per non fare altre vittime.

Ma nemmeno un pochino-ino di marysuaggine?

Forse un po’, ma questo l’ho notato maggiormente nei libri: il racconto in prima persona in questo frangente svilisce, a mio parere, tutto il contesto che circonda la ragazza. Katniss descrive fatti, azioni ed emozioni, ma nulla ci è dato sapere di cosa provino gli altri o di come essi vedano lo scorrere degli eventi.  E’ un monocolo puntato solo ed esclusivamente su di lei e, come dirò più avanti, è uno dei punti più deboli dei libri.

Una piccola nota curiosa, invece, che può segnare la diversità tra Mary Sue e Katniss: la differenza tra le riprese televisive ed il racconto scritto circa la festa nella grande villa di Snow. Il film si concentra maggiormente su abiti, su scene corali e sui dialoghi, nel libro, invece, Katniss non esita a raccontare la gran quantità di cibo che si trova sotto gli occhi ed il fatto che sia lei che Peeta provino ad assaggiare tutto ciò che capita loro davanti. Una differenziazione simile l’avevamo vista anche durante il primo libro/film, nel viaggio in treno che portava i due tributi alla capitale: come se il grande schermo avesse deciso di saltare a piè pari la fame disperata dei due ragazzi, una fame che proviene da una vita fatta di stenti e di risorse al minimo, una fame che li aveva portati addirittura a mangiare il cibo con le mani, in totale spregio alle regole delle buone maniere. Possiamo capire la necessità dei tempi cinematografici, ma tralasciare questo particolare leva un po’ di umanità ai personaggi e conferisce un’aura di superiorità che non possiedono, almeno in questo frangente.

Ma veniamo al punto clou, quello dell’edizione speciale dei settantacinquesimi Hunger Games. Come reagisce Katniss nell’apprendere che deve tornare nell’arena?

Con una crisi isterica in piena regola.

Corre fuori casa, piange, urla, si dispera. E solo quando si è calmata decide di andare dal mentore Haymitch. Il rimprovero che l’uomo le fa è l’antidoto ad ogni tentativo di renderla Mary Sue: lei ha passato il tempo a disperarsi, Peeta invece è immediatamente corso da lui per capire come salvare la vita della ragazza di cui è innamorato.

Eppure, eppure… gli stereotipi ci sono e ne avevo già fatto un accenno poco sopra. Valgono per tutta la trilogia, mentre per i film l’accento è meno marcato, ma c’è.

Non abbiamo la più pallida idea di come abbia reagito Peeta, o gli altri tributi, ad esempio. Non sappiamo quanto si sia disperato, quanto abbia sudato freddo e quanta paura abbia avuto. Qui il fuoco è concentrato esclusivamente sulla protagonista e se da un lato ci aiuta a darci il suo punto di vista, dall’altro tende a escludere tutti quelli degli altri personaggi che la circondano. E’ così in più e più punti e, salvo momenti in cui i personaggi stessi sono portati a raccontarsi, raramente sappiamo cosa passa loro per la testa ma soprattutto per il cuore.

Io l’ho trovato… troppo. Questa assoluta concentrazione su Katniss lascia lettore e spettatore con un senso di qualcosa a metà e non credo che sia un caso che la maggior parte delle fanfiction su questa saga non voli di fantasia sugli avvenimenti, ma si concentri sulle vicende viste dagli altri personaggi, ovvero proponga gli Hunger Games che conosciamo ma con altri POV (cioè punti di vista). E’ come se avessimo un’unica telecamera puntata sulla Ghiandaia mentre tutto il resto è in secondo piano.

Katniss non si comporta da Mary Sue, ma di fatto viene trattata come tale. Le vicende non ruotano intorno a lei – e per fortuna, perché questo è un ammortizzatore non da poco – ma quel suo unico punto di vista secondo me impoverisce la storia.

Un piccolo esempio: Cinna. 

Il mio personaggio preferito, lo ammetto, in entrambe le versioni. Lo stilista è attratto dalla forza di volontà della ragazza, la aiuta e la mette a suo agio, le dà consigli e tramite gli abiti che le crea regala alla storia e a Katniss passi in avanti, fino al culmine: l’abito matrimoniale che si tramuta in veste da Ghiandaia. Bello, bellissimo… ma quali sono i pensieri di Cinna? Quale il suo stato d’animo mentre vede le guardie arrivare verso di lui, mentre viene lentamente ucciso sotto gli occhi di Katniss? Conosciamo solo il grande dolore che prova lei – e che abbiamo provato anche noi – eppure un’incursione nei pensieri di lui ci sarebbe piaciuta, soprattutto data la consapevolezza che il suo è stato un sacrificio volontario in nome della ribellione. Cosa lo ha spinto ad abbracciare quell’ideale così pazzesco per un abitante di Capitol City? Non lo sapremo mai veramente.

L’arena dei settantacinquesimi giochi.

“Ricordati chi è il vero nemico.”

E’ più di un monito, è un vero e proprio libretto d’istruzioni per capire come uscire vivi una seconda volta da un luogo letale.

Katniss tecnicamente ha un solo obiettivo: far sì che sia Peeta a salvarsi, dato che pare abbastanza ovvio che questa volta la storiella dei due innamorati non sarà sufficiente a salvare entrambi. Libro e film coincidono abbastanza, salvo piccoli particolari che però possono fare la differenza.

Due piccoli esempi pratici: la spillatrice che all’inizio viene lanciata al nostro gruppo di Tributi. Il film, per ovvie ragioni di tempo, ci mostra una Katniss che sa quasi subito cosa sia l’oggetto in questione. Il libro no. La ragazza si arrovella al pari degli altri, per delle ore intere, fino ad arrivarci solo dopo un lungo ragionamento. Pare una stupidaggine, ma tra il mostrarci una Ghiandaia che sa sempre subito cosa fare ed una Ghiandaia in difficoltà insieme al gruppo c’è una differenza non da poco.

“Tic-Tac.”
L’arena è un orologio. Anche qui, il film ci regala una Katniss che comprende abbastanza presto il meccanismo dell’arena, mentre invece nel libro il processo non solo è molto più lento, ma fondamentale è l’aiuto degli altri tributi e il suggerimento datole proprio dal capo stratega Plutarch durante la festa alla villa di Snow.

Le tempistiche cinematografiche, più impietose rispetto alle pagine di un libro, hanno tralasciato più facilmente quei momenti di difficoltà della ragazza, difficoltà che la rendevano più umana e molto meno simile alla Mary Sue.

La controparte migliore per questo difetto sta, ancora una volta, nella trama generale: la ribellione che è andata avanti senza che Katniss lo sapesse, tanto che ad un certo punto ci si rende conto che è stata lei ad essere manovrata dagli altri in nome di un disegno più alto. Anche se tutti gli occhi sono stati concentrati su di lei, il mondo non solo non le ha girato intorno – come avviene con le Mary Sue – ma ha continuato per la sua rotta addirittura contro le previsioni della ragazza.

Il canto della rivolta.

L’ultimo libro, trasposto in due film, si presenta come il più tragico e catastrofico della trilogia.

Salvata in extremis dall’arena, ritroviamo una Katniss ancora più devastata dagli avvenimenti, più a livello psicologico che su quello fisico.

Peeta ed altri tributi sono prigionieri di Capitol City, lei di fatto è prigioniera del Distretto 13, un Distretto ben vivo ed attivo sottoterra mentre per tutti è tecnicamente stato distrutto durante la ribellione che ha dato origine agli Hunger Games.

La sua casa, il Distretto 12, sono stati distrutti anch’essi, quasi tutti gli abitanti uccisi dai bombardamenti ed il presidente Snow si premura di farle sapere a chi è dovuta l’iniziativa.

Se volessimo cadere nella trappola della marysuaggine potremmo facilmente dire che la “colpa” di quest’ultimo avvenimento è di Katniss e del suo essere diventata la Ghiandaia. Ma basta un’analisi con un briciolo di logica per capire che no, la ragazza qui c’entra solo marginalmente e sempre per merito di quella trama che va tranquillamente avanti anche senza di lei. Katniss si è solo trovata nel posto giusto al momento sbagliato, ma le scelte di ribellione nei vari distretti, così come tutte le altre scelte, sono state fatte indipendentemente da lei: avrebbe potuto anche essere una mirabolante Ghiandaia, ma se il popolo non avesse voluto veramente ribellarsi non lo avrebbe fatto in ogni caso.

Che venga vista da tutti come un simbolo è un dato di fatto e non serve una Mary Sue perché accada questo.

La Ghiandaia accetterà di essere tale solo quando il Distretto 8 verrà attaccato e con esso un ospedale colmo di feriti in seguito al bombardamento dei vari distretti mentre era ancora in corso l’Edizione della Memoria. Morte su morte, il regime di Panem non sembra fare distinzione tra ribelli e feriti completamente inermi: simpatizzare per la protagonista è facile quanto bere un bicchier d’acqua.

“Se noi bruciamo, voi bruciate con noi!” È la dichiarazione di guerra, la prima che lei fa apertamente e con tutta la consapevolezza del caso.

Ma ancora, nonostante questo, il mondo non girerà mai intorno a lei: non lo farà Alma Coin, la presidente del Distretto 13, che userà Katniss per tutto il tempo che le farà comodo; non lo faranno i Distretti, perché non basteranno gli appelli della Ghiandaia, ma ci vorranno anche altri per dare le spallate al potere di Capitol City. Come le terribili rivelazioni di Finnick nei confronti di chi è veramente Snow, o il coraggio del gruppo di assalto alla capitale. Come le bombe che cadranno sugli abitanti inermi di Capitol City ed uccideranno soccorsi e soccorritori, tra cui la piccola Prim.

Una Mary Sue ha la trama ai suoi piedi. Katniss no, anzi, chi la mette in difficoltà si conta nel numero maggiore di chi effettivamente la aiuta.

La maggioranza delle critiche circa questo capitolo della saga l’ho già espressa all’inizio dell’articolo. Anche qui non ci è dato molto sapere cosa pensano o provano gli altri protagonisti. Gli unici che riescono ad uscire dallo sfondo sono Finnick Odair e Peeta.

Il primo lo fa perché trova il modo di raccontarsi, sia in privato, a Katniss, che in pubblico, quando rivela alle telecamere qual è il prezzo che ha pagato per la sua vittoria e quale sia il segreto dell’ascesa di Snow: è un resoconto tragico, crudo e per la prima volta vediamo un personaggio con i nostri occhi e non con quelli di Katniss. La dipartita del ragazzo, durante l’assalto a Capitol City, per me è stato uno dei peggiori colpi bassi del romanzo.

“Reale o non reale?”

Liberato, o meglio, lasciato andare da Capitol City, Peeta deve fare i conti con il Depistaggio, una pratica di tortura mentale e fisica che lo ha reso completamente ostile a Katniss, tanto che al primo incontro per poco non riesce a farla fuori.

E’ in questo frangente che Katniss riesce a mostrare il meglio di sé, quando cerca di ravvivare i ricordi del ragazzo, quando racconta e si racconta per cercare di riavere il Peeta a cui comunque ha voluto bene. Ma è anche questo il momento in cui riusciamo a focalizzarci su Peeta e sembra quasi una boccata d’ossigeno ad una visione Katniss-centrica.

Seppur mostratoci attraverso le lenti della Ghiandaia, è abbastanza facile per il lettore provare empatia per il povero Peeta: le sue domande sono disarmanti e mostrano la forza inaudita delle torture cui è stato sottoposto. Tutto ciò traspare di più nei libri che nei film e questo, purtroppo, non è una buona causa contro la marysuaggine cinematografica.

Vittoria?

L’assalto a Capitol City è un gioiellino, sia dal punto di vista letterario che cinematografico. Di fatto è una terza arena, ricca di trappole, di ibridi ed il lettore, ormai assuefatto allo scorrere degli avvenimenti, non prova nemmeno a sperare che il gruppo arrivi interamente vivo fino al punto finale.

Katniss ce la fa, ma più che di Mary Sue io parlerei piuttosto di “fattore C”, dove la C indica una fortuna grande come una casa, ed il perché è presto detto: simbolo della ribellione, è nell’interesse del gruppo far sì che lei arrivi viva alla villa di Snow, anche a costo del sacrificio degli altri. E così avviene. La ragazza ce la fa perché altri le aprono la strada, perché altri si sacrificano per lei. Arriverà quasi ai cancelli della villa, ma ancora una volta la trama che va avanti senza di lei segna il suo colpo più duro: Prim, accorsa insieme ai soccorritori per aiutare il popolo inerme di Capitol City, muore sotto quello che potremmo chiamare “fuoco amico”. L’accusa è velata, non è esplicita, ma è facile intuire che dietro quell’iniziativa ci fosse proprio l’amico Gale.

Qui non c’è spazio per la marysuaggine.

L’azione descritta dalla Collins purtroppo è ben nota alle cronache del nostro tempo ed il punto di vista di Katniss, il suo dolore nell’assistere alla morte di Prim, si intreccia con il dramma di una tipologia di guerriglia che esiste nella nostra realtà e non può non far riflettere.

Come ne uscirebbe la Mary Sue da un avvenimento del genere?

Di solito con la sua grande forza di volontà, così grande da essere inesprimibile e superiore a quella degli altri.

Katniss no. Quella poca sanità mentale se ne va, lo stesso dicasi per quella fisica, dal momento che lei stessa viene colpita dall’esplosione. Quando sarà il momento di votare dei nuovi Hunger Games, stavolta con gli abitanti di Capitol City come tributi, la ragazza non sceglie nessun buonismo e vota a favore. Difficilmente la Mary Sue si sarebbe comportata allo stesso modo ma avrebbe cercato di far emergere il suo lato stupendamente superiore alla morale comune.

Epilogo.

Il finale con Peeta è probabilmente un po’ scontato, ma è quello che fa fare un sospiro di sollievo al lettore. E non per la storia d’amore in sé, ma per le parole della stessa Katniss: due vite spezzate come le loro, torturate più e più volte, hanno una sola via d’uscita per poter camminare senza sbandare. Farsi forza a vicenda, perché l’unica altra alternativa è crollare impietosamente sotto il peso degli avvenimenti.

Comprendiamo quindi come la scelta della ragazza non sia una scelta dettata da innamoramento romantico, che di fatto non c’è mai stato, bensì un umano bisogno di avere qualcuno accanto in grado di comprendere le ombre che si porta dietro, e Peeta è l’unico ad esserne capace perché ha il medesimo bisogno di Katniss.

Che dite?

Ce l’abbiamo fatta a differenziare un po’ la nostra Ghiandaia dalla terrificante e stereotipata Mary Sue, o ancora pensate che Katniss ci cada invece con tutte le scarpe?

Se siete arrivati fin qui, ci farebbe molto sentire il vostro parere.

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