Maniac- la recensione

 

“Maniac” è  una miniserie del 2018 esclusiva della piattaforma  Netflix scritta e diretta da Cary Fukunaga, già regista dell’acclamato “True Detective” e sceneggiatore di “the Alienist”. Basata sull’omonimo show norvegese del 2014, la serie vede un cast di tutto rispetto costituito dal premio Oscar Emma Stone affiancata da Jonah Hill e Justin Theroux.

La miniserie racconta le vicende di Annie Lansberg (Stone) e Owen Milgrim (Hill), due malati di depressione che decidono di sottoporsi ad una sperimentazione di tipo farmaceutico creata dal dottor James K Mantleray (Theroux) che propone di curare la loro malattia in tre semplici mosse rappresentate dalle pillole A, B e C. Da perfetti estranei i due si ritroveranno a condividere la sperimentazione entrando l’uno a contatto con le disavventure dell’altro compiendo un tortuoso percorso per andare alle origini dei loro disturbi. Inseriti in un laboratorio diviso tra la tecnologia futurista e quella nostalgica degli anni ’80, i volontari sottopostosi al test dovranno anche affrontare le conseguenze che la sperimentazione comporta, compreso un computer che è più vitale di quanto sembra.

Già prima della sua uscita “maniac” aveva creato grandi aspettative grazie al suo cast stellare e ad un trailer che tra il misterioso e la novità era stato in grado di attirare molti spettatore. Fin dalle prime puntate ci si renda conto che tutto quanto ci era stato costruito intorno venga rispettato: l’incipit è veramente allo sprint con i due personaggi protagonisti che dopo un inquadramento specifico divisi tra problemi patologici e difficile vissuto, hanno come unica soluzione sottoporsi al trial clinico. L’ammissione alla sperimentazione è anche l’inizio di un viaggio che porterà Annie e Owen a scavare nel loro inconscio e per lo spettatore rappresenterà una rassegna di diversi generi letterari e cinematografici. Grazie ad una regia eccellente ed una formidabile Emma Stone, a suo agio nei vari scenari e perfetta in ogni ruolo, si passerà così dal racconto di spionaggio a quello fantasy, alla commediola anni ’80 e al regolamenti di conti tra bande. Ogni nuovo contesto è un occasione per i protagonisti per andare a fondo nel proprio passato, scavare alla ricerca dell’origine dei loro disturbi e per lo spettatore un viaggio in aspettato tra piccoli particolari in grado di mettere in collegamento ogni situazione.

netflix.com

Se l’inizio rispetta le alte aspettative, purtroppo non si può dire lo stesso anche di tutto il resto. Le prime puntate partono a bomba proponendo allo spettatore tanti scenari diversi e soprattutto mettendo tanta, ma troppa carne sul fuoco. È forse questo il vero problema: il troppo materiale, le troppe storie che si intrecciano, si ingarbugliano, rischiando così di diventare frammentarie, sfaccettate e soprattutto difficili da seguire soprattutto a causa della loro improvvisa interruzione. Con questo immenso bagaglio di storie lo spettatore rischia di perdersi così come sembra essere successo alla trama principale della serie che dopo deviazioni infinite non sa più ritrovarsi. Ad interessare fin dall’inizio sono le due patologie dei protagonisti che tra l’altro sono praticamente all’origine di tutto il racconto, ma la loro descrizione, il bisogno di trovare una cura scompare nei meandri del racconto. Annie soffre del disturbo borderline della personalità, l’infanzia difficile e il suo comportamento sono specifici indici di tale patologia, ma purtroppo sempre più spesso tale disturbo diventa qualcosa di secondario, un problema che non sembra essere inquadrato in pieno, forse troppo sorvolato, incomprensibile. Lo stesso si può dire di Owen, un chiaro schizofrenico con un difficile rapporto con la famiglia, una situazione difficile e drammatica, ma purtroppo si vede in modo troppo limitato, il personaggio infatti non avrà mai una crisi così forte da mostrare allo spettatore la vera natura del suo male che rischia di essere bollato come una semplice depressione.

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La parte finale è ciò che meglio incarna l’aspetto caotico della serie; si susseguono infatti scene prive di ordine che portano a quella che potrebbe essere più o meno considerata una soluzione ancora una volta sfaccettata e sfuocata, abbagliata dalle stesse luci che ritroviamo nel laboratorio. È tanto il materiale proposto, ma forse troppo poco lo spazio per trattarlo tutto quanto. Una menzione è d’obbligo per il dottor James, l’inventore delle tre pillole testate dal trial clinico; un personaggio controverso dal potenziale infinito che nonostante assuma le vesti del dottore si trova di fronte ad un’insofferenza, ad un’insoddisfazione, ad una scelta sbagliata, dettata molto probabilmente dal suo rapporto con la madre che avrebbe meritato una trattazione decisamente più ampia.

Nonostante i numerosi aspetti critici della miniserie, non posso però dire che non mi sia piaciuta. Merito sicuramente degli attori, della regia, dei diversi stili e delle tante idee, forse sarebbe stato più opportuno dare meno e in modo più ordinato. È il vero e proprio finale che risulta la cosa più enigmatica e interessante tra tutte le dieci puntate, lasciando un briciolo di possibilità di una seconda serie che, se verrà messa in produzione, forse riuscirà a riportare ordine nel caos creato dalla prima.

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