I moschettieri del re -La penultima missione- Recensione

 

Che fine hanno fatto i moschettieri protagonisti di tante imprese? È la domanda a cui tenta di dare risposta Giovanni Veronesi con il suo ultimo film dal titolo “I moschettieri del re- La penultima missione” che sarà nelle sale a partire dal prossimo 27 dicembre. Un grande dispiego di forze e di risorse per una pellicola che è stata a lungo nei progetti del regista toscano e che ha il profumo di uno dei grandi kolossal con un cast eccezionale. A dare volto a D’Artagnan e ai tre moschettieri ci sono rispettivamente Pier Francesco Favino, Rocco Papaleo (Athos), Valerio Mastandrea (Porthos) e Renzo Rubini (Aramis) che formano un quartetto ben amalgamato e che ha trovato la giusta armonia.

Francia, XVII secolo, i famosi moschettieri tanto celebrati hanno ormai abbandonato le armi e sono stati dimenticati. Ora sono un allevatore di bestiame, un castellano lussurioso, un frate indebitato ed un  locandiere ubriacone, sono lontani i tempi in cui scorrazzavano per il paese vestendosi di grandi trionfi, ma la regina Anna (Margherita Buy) li chiama a raccolta per un’ultima missione: il paese è nel pieno delle guerre di religione, gli ugonotti sono perseguitati dal cardinale Mazzarino (Alessandro Haber) che ha la funzione di reggente del re Luigi XIV; non c’è tempo da perdere e i moschettieri sono l’unica speranza per porre fine allo stato di emergenza. Dopo più di vent’anni i quattro valorosi spadaccini si ritroveranno così di nuovo insieme e tra un acciacco e l’altro dovranno fare di tutto per salvare le sorti della patria. Accanto a loro troveranno personaggi molto particolari come l’irriverente ancella della regina (Matilde Gioli) il servo muto (Lele Vannoli) e Cicognac. (Valeria Solarino).

Il film si presenta come una vera e propria commedia in cui d’Artagnan e compagni ormai invecchiati devono affrontare le difficoltà e le sfortune della vita mentre tra di loro comunicano con un linguaggio forgiato di dialetti regionali variegati, tra cui spicca il “gergo inventato” di Favino a metà tra il francese e l’italiano sgrammaticato. Ma vi è molto altro insieme alla pellicola comica, cosa che a tutti gli effetti è, ma la comicità è solo una scorza sotto la quale si  ha ben altro. E’ fin da subito evidente quanto sia approfondito lo studio portato avanti dal regista sul testo di Dumas, sull’ambientazione e sui costumi del tempo. Senza ombra di dubbio quanto si vede potrebbe sembrare quasi dissacratorio nei confronti del famosissimo romanzo di appendice, ma quella che viene portata avanti non è certo una presa in giro, tanto meno una parodia. Si tratta invece di una rilettura coerente, un tentativo di immaginarsi cosa c’è oltre e cosa sarebbe potuto accadere in un futuro, ciò che viene stravolto ha sempre come modello il testo originario. Per rendersi conto dell’intenso lavoro basta vedere le figure di Porthos, Milady ed Aramis, tre personaggi di cui viene ripresa la particolare caratterizzazione presente in Dumas, nei modi, nelle abitudini e anche nel vestire.
La fotografia è un valore sicuramente aggiunto del film, le riprese infatti, realizzate in Lucania, hanno reso possibile una ricostruzione della Francia del Seicento con luoghi che paiono essere rimasti identici nel tempo. Sono le grandi vallate le protagoniste delle lunghe cavalcate dei moschettieri che, forgiati dei loro mantelli e del finalmente recuperato moschetto, passano da una missione all’altra. Unica forse pecca della trama è costituita dai personaggi di Mazzarino e Milady  (Giulia Bevilacqua), soprattutto l’ultima, interprete cardine del romanzo originario, ma che qui rischia di essere quasi dimenticata e di rimanere soltanto una piccola macchietta sullo sfondo.

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Tanto era il materiale a disposizione di Veronesi e alto era il rischio di perdersi nella narrazione creando un ingarbugliamento della trama , ma il risultato ottenuto è stato ben altro; il regista è stato infatti in grado di costruire un racconto ben bilanciato in cui accanto alla comicità riecheggia lo stile dei vecchi kolossal dalle grandi spianate e dalle tante comparse. Se da una parte però l’aspetto divertente sembra avere la meglio c’è però lo spazio per lunghi momenti di riflessione durante la pellicola. Quello sulla scena sono ormai moschettieri ben diversi da quelli con cui eravamo abituati a confrontarci, quasi nessuno si ricorda di loro così come le loro imprese, sono vecchi e presto verranno dimenticati di nuovo. E’ il personaggio di Valerio Mastandrea che tra un duello e l’altro si farà portavoce del messaggio profondo che il film vuole comunicare, tante battute che però sembrano lasciare spazio a un rammarico che tutto quello che stiamo vedendo un giorno possa finire.

Sono due ore intense di film quelle che propone Giovanni Veronesi, una pellicola che non delude e in cui comicità e storia si intrecciano  fornendo allo spettatore un panorama variegato di modi di dire francesizzati e di precise ricostruzioni storiche. Insieme alle battute e alle incomprensioni nei quali si imbattono i personaggi, “i moschettieri del re” si trasforma in un vero e proprio viaggio con lo spettro del ricordo del passato e il timore del futuro,  un mondo spesso troppo triste e malato in cui l’immaginazione pare rimanere ancora l’unica salvezza possibile.

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