Morimondo o la voce del Po

Curiose creature gli esseri umani, così ossessionate dal tempo e dal fatto che questo sembri definire il tessuto stesso della realtà. E se qualcosa sfugge a questa classificazione, diviene per esse inconcepibile. Nella prefazione di Morimondo di Rumiz l’editore avverte il lettore che: “ la datazione di questa discesa fluviale ci è ignota. Il manoscritto ci è giunto nelle mani nel 2012 ma non vi sono certezze sui tempi della sua stesura e nemmeno su quelli del viaggio.” Lo sforzo di riuscire a collocare precisamente nel tempo è tale che viene insinuato il dubbio se l’autore abbia davvero fatto quella traversata.
Il mio personale giudizio? Premessa doverosa: chi vi scrive non ha mai brillato in questo. Per me il tempo è una dimensione ignota tale che, se non vedessi la data sul calendario non riuscirei a stabilire con precisione in che giorno dell’anno mi trovo. Fatta questa premessa vi dico subito cosa penso della questione.
Credo fermamente che Paolo Rumiz abbia attraversato Po ma che, come nelle narrazioni migliori, il suo racconto di viaggio sia stato arricchito grazie alle testimonianze della gente che lui e i suoi compagni di viaggio hanno incontrato.
Cosa si sa davvero di Po? Cosa arriva, all’italiano medio di questo fiume dichiarato sempre il più lungo della nazione, delle sue leggende, della sua storia, della sua tradizione e, soprattutto, della sua malia? Poco, molto poco purtroppo.
Esemplare un dialogo surreale tra l’autore e un nonno in quel di San Mauro Torinese.
Rumiz chiede: “Scusi come si arriva al Po?”
Risposta: “Non lo so, non ci sono mai andato.”
Di nuovo: “Ma lei è di qui?”
“Si ma non vado mai sul Po. Però penso che può provare di là oltre quei tre campi sportivi, forse c’è un varco.”

La traversata ovviamente riserva i suoi imprevisti e l’autore e i suoi compagni devono affrontare non poche difficoltà, considerando l’incuria che domina tutto ciò che ha a che fare con la natura e con certi luoghi dichiarati poco produttivi. I “terricoli” hanno dimenticato come sia ascoltare la voce di questo fiume, cercano di rinchiudere l’acqua o di sfruttarla e quando non vi riescono lasciano tutto lì a marcire nel degrado più totale. Leggere certe pagine è una pugnalata al cuore di chiunque ami la natura e non vorrebbe vederla deturpata.
Po è luogo di leggende, di persone attaccate alle proprie origini. E’ così evidente nel caso della gente di Balossa Bigli. Un pescatore mette alla prova l’autore come nuotatore e quando è soddisfatto di quel che vede, mostra a Rumiz una enorme mascella fossile di mastodonte. Lo sguardo di Paolo Rumiz, che aveva trascorso la fanciullezza grattando il fondo delle caverne del Carso alla ricerca di tracce dell’orso speleo, si illumina e il pescatore allora gli mostra un enorme ciottolo con tracce d’oro. Mentre l’autore sta soppesando quella pietra il resto della gente lo stava osservando e valutando e, poco dopo, uscirono allo scoperto lodando la scialuppa con cui erano arrivati, chiedendo notizie del viaggio. In poco tempo Rumiz e i suoi compagni di viaggio vennero ben accolti dal paesino che si adopera per soddisfare le loro richieste.
All’inizio questo atteggiamento era poco chiaro poi poco dopo tutto divenne più comprensibile: lui e i suoi amici erano giunti via acqua e e quelli di Balossa Bigli erano gente d’acqua. Naturale che nascesse un’affinità in maniera così perfetta. Come spiega lo stesso Claudio, il pescatore, ghignando: “Qui ce n’è tante di anime pie, specialmente per quelli che arrivano dal fiume. Degli altri, ci fidiamo assai meno.” Considerato come i terricoli trattano il fiume e la gente che vi abiti, onestamente parlando non riesco a dar loro torto.
Po fiume pieno di leggende e di spiriti femminili, come quello che l’autore ha incontrato anni prima in altri viaggi e altri fiumi, che evoca nella sua mente la parola Morimondo, con cui battezzerà una barca con cui farà un pezzo di percorso (in realtà ho scoperto che è il nome di un villaggio lombardo della riva sinistra del Ticino): una donna pallida, vestita di nero, che lo guarda con i suoi grandi occhi scuri. E’ una sorta di regina nera, una figura emblematica in cui Rumiz si è imbattuto in altre parti del globo, dalla stazione di Baltimora ai bazar di Kabul e persino a Trastevere. E’ una sorta di compagna di viaggio silenziosa e anche un po’ sinistra, che lo scrittore percepisce come colei che lo traghetterà un giorno verso l’ultimo viaggio.

Panorama delle valli del Delta all’imbrunire

E proseguendo lungo Po l’autore diviene stanco delle leggende altrui, dei libri che hanno narrato simili cammini e che, secondo Rumiz, gli avrebbero impedito di sentire la propria voce in rapporto con il fiume. Per cui decide di liberarsi della zavorra, di compiere un rituale catartico gettando nel fiume la sua copia di “Le novelle orientali” di Marguerite Yourcenar, un esemplare che gli era sempre stato caro e che lo aveva accompagnato fino a quel momento. Ma il rituale non funziona, la visione di quel libercolo che si libra nell’aria lo ossessiona e così inizia una sorta di dialogo ideale tra il libro e l’autore.
“Hai mai sentito il mormorio del popolo del Libro? Ascoltalo assomiglia alla voce del tuo fiume. E’ un brusio che rassicura.” E ancora: “L’acqua che va, dopotutto, è narrazione. Si porta dietro milioni di storie, quelle che tu stessso cerchi di trovare. (cut) E allora pensaci, io e lei siamo la stessa cosa. Anche io come lei sono destinato a sopravviverti e tramandare storie.”
Come in una sorta di compensazione dopo aver gettato un libro, la fiuma – come la chiamano alcuni di quelli che vivono Po secondo tradizione – restituisce a Rumiz e al suo amico Alex un altro libro che sembra parlare di loro e delle loro vicissitudini. Leggono ad alta voce le poche parole scampate dall’umidità. Quella sorta di rituale notturno, parole lette ad alta voce in piena notte, restituiscono allo scrittore il suo rapporto con il Libro.
E la protagonista finale del viaggio, una volta arrivati a destinazione è proprio la donna di Morimondo, che è anche lo spirito del fiume, pardon, della fiuma, trovandole un nome, Dinka, anche se non è sicuro si tratti del suo nome o di quello del corso d’acqua o di entrambi.
E’ un viaggio questo libro a tratti intenso a tratti faticoso, soprattutto nelle parti in cui vengono denunciati i silenzi e gli abusi di una amministrazione assente nella gestione di tratti del fiume e della sua salvaguardia ma è anche narrazione che evoca tutto un altro modo di intendere il viaggio e di vedere l’Italia. A partire da quel fiume di cui, come si diceva a inizio recensione, l’italiano medio non ha davvero percezione, non nella sua forza e bellezza.

 

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