L’Uomo ed il sogno del Volo – Parte 2

Nello scorso articolo (che trovate qui) abbiamo visto come l’idea del volo sia sempre stata presente nell’immaginario umano e come ogni cultura abbia coltivato, in modi e con immagini diverse, l’ambizione di ascendere ai cieli.

Ora vedremo come questo sogno iniziò a prendere forma e realtà.

Cappelli, mantelli, aquiloni: tra Cina ed Europa, tra leggenda e storia

Parlando del mito del volo nel mondo antico ho colpevolmente trascurato la Cina; eppure anche le antiche civiltà cinesi hanno le loro leggende circa il volo.

Ad esempio si narra che il leggendario imperatore Shun, il cui regno viene collocato un paio di millenni prima di Cristo, riuscì a salvarsi dal rovinoso incendio del proprio palazzo costruendosi una sorta di aliante con due grandi cappelli di vimini e un mantello di seta.

È inoltre molto noto come in Cina fosse diffusa fin dall’antichità la fabbricazione di aquiloni ed in effetti è molto probabile che i primi oggetti volanti creati dall’uomo siano stati proprio dei rudimentali aquiloni.

La Cina, come dicevamo, è stata pioniera in questo: i primi aquiloni cinesi sono infatti menzionati nel secondo secolo dopo Cristo, quando il generale cinese Han Xin usa un aquilone per calcolare la distanza tra se stesso ed un palazzo.

Nei secoli successivi troviamo descrizioni e dipinti che mostrano aquiloni usati come aiuto per pescare al largo, portando grazie al vento delle lenze lontano dalla costa o dalla barca da cui si sta pescando.

Nel sesto secolo le cronache descrivono gli eserciti cinesi usare gli aquiloni per fare segnalazioni e portare messaggi.

L’aquilone in se stesso non è, chiaramente, una vera macchina volante – però il loro uso rappresenta il primo tentativo di utilizzare l’aria come mezzo di sollevamento – “far lavorare” l’aria per far volare qualcosa.

O qualcuno, poiché è facile pensare che ben presto si sia fatta strada l’idea che se un piccolo aquilone può usare la forza del vento per trasportare un piccolo oggetto, un grande aquilone può essere usato per portare oggetti più grandi. Per esempio una persona.

Sfortunatamente il primo utilizzo di aquiloni per il volo umano è ben poco edificante: le cronache ci parlano infatti dell’imperatore Kao Yang che usava costringere coloro che lo contrariavano a legarsi ad un grande aquilone e saltare così equipaggiati da un’alta torre della città di Yeh, con la promessa che se fossero riusciti ad atterrare vivi sarebbero stati graziati.

Si trattava chiaramente di una crudele beffa dell’imperatore, che godeva nel vedere i prigionieri saltare da soli verso la morte; stando alle cronache solo un prigioniero, tale Yuan Huang-T’ou, riuscì ad arrivare a terra vivo grazie alle ampie ali del proprio aquilone a forma di gufo.

Purtroppo un sovrano crudele in genere non è un sovrano che mantiene la parola – difatti l’imperatore, irritato per non aver potuto godere della vista di Yuan sfracellato al suolo, lo fece murare nella propria cella lasciandolo a morire di fame e sete.

Le notizie degli aquiloni cinesi e dei loro usi vengono portate, successivamente, verso Occidente da vari viaggiatori tra cui Marco Polo.

Nel 1326 Walter di Milemete dipinge nel suo “De Nobilitatibus, sapientiis, et prudentiis regnum” (De Nobilitatibus, Sapientiis et Prudentis Regnum) dei cavalieri che, aiutandosi con quella che sembra una carrucola, utilizzano un grande aquilone per portare un otre pieno di polvere pirica sopra le mura di una città assediata.

 

Prima ancora di questo però, nel IX secolo, ci viene menzionato un tal Abu l’Quasim ‘Abbas bin Firnas, un Moro di Spagna, studioso di fisica e, stando alle cronache, “poeta non tanto bravo” che forse prendendo spunto dal mito di Dedalo e Icaro costruì “grandi ali piumate” e le usò per saltare da una collina, riuscendo a quanto pare a planare per una certa distanza.

Il suo volo si concluse in un atterraggio alquanto rude che gli causò gravi ferite alla schiena.

È però improbabile che Quasim avesse realizzato delle vere e proprie ali – molto più realistico che esse somigliassero più a un rudimentale paracadute.

Più dettagli abbiamo invece su un altro tentativo similare condotto nel XI secolo da un giovane monaco Benedettino, tale Fratello Eilmer dell’abbazia di Malmesbury.

La cronaca fornita, un secolo dopo circa, da William di Malmesbury nel suo “De Gestis Regum Anglorum” (De Gestis Regum Anglorum) include diversi particolari che ci permettono di farci un’idea di quanto accadde e soprattutto di come Eilmer si fosse attrezzato.

Si parla infatti di ali “legate alle braccia e ai piedi” che Eilmer poteva muovere e perfino sbattere per imitare gli uccelli – il che ci suggerisce che Eilmer avesse costruito una struttura rigida, di legno, su cui aveva poi applicato probabilmente tela o altra stoffa incollandovi sopra delle penne.

Alquanto interessante è l’osservazione circa le ali sui piedi, che ci suggeriscono che Eilmer avesse fatto qualche osservazione sulla stabilità longitudinale in volo (vedere più avanti per approfondire questo punto).

Stando a William, Eilmer saltò da una torre alta 150 piedi (circa 50 metri) e planò per “More than a furlong” (circa 200 metri).

Purtroppo quando si trovava ormai a pochi metri dal suolo Eilmer perse il controllo del suo rudimentale aliante e precipitò, cavandosela con una gamba rotta che lo lasciò zoppo.

William riporta che Eilmer, soddisfatto comunque per il risultato del suo esperimento, attribuì l’inconveniente alla mancanza di una vera e propria coda – cosa che rafforza l’idea che le sue conoscenze sulla stabilità di un velivolo fossero alquanto avanzate per l’epoca.

Eilmer di Malmesbury, raffigurato in una finestra dell’Abbazia di Malmesbury

Appendice: i razzi.

Sempre in Inghilterra, nel XIII secolo, il monaco francescano Roger Bacon parla dell’uso di polvere nera per propellere macchine volanti – ma, preoccupato dei possibili altri usi di una simile invenzione, ne scrive in modo oscuro e nasconde la formula crittografandola.

Pochi anni dopo, comunque, il Domenicano tedesco Albertus Magnus pubblica (in chiaro) la propria formula per l’ignis volans.

Tuttavia qualcuno la sta già mettendo in pratica: nel 1248, lo stesso anno in cui Bacon scrive, i cronisti arabi del Califfato Abbaside di Baghdad che si difende dall’invasione dell’Ilkhanato (l’Impero Mongolo) descrivono le “Frecce di fuoco” lanciate in grandi quantità dagli invasori (in effetti già nelle cronache della battaglia di Mohi, nel 1241, viene accennato ad armi che potrebbero essere razzi).

Gli Arabi a quanto pare riescono a scoprirne il segreto a propria volta dato che  pochi anni dopo Hassan Er’Rammah scrive un trattato di strategia e tecnica militare che include una sezione dedicata alla fabbricazione ed uso delle “Frecce Cinesi” alimentate a polvere pirica;

tali armi vengono usate in abbondanza all’assedio di Valencia nel 1288 con devastanti risultati.

A breve anche gli eserciti europei iniziano ad usare regolarmente queste armi che, pur imprecise e costose, risultano molto utili negli assedi.

I razzi verranno usati regolarmente fino al XV secolo, quando verranno soppiantati dalle più precise e meno costose artiglierie, per poi ritornare in auge in era moderna.

L’uso di razzi per il volo umano non diventerà realtà fino al XX secolo, quindi per il momento li lasceremo da parte.

 

Approfondimento: perché agli aeroplani serve una coda?

Dall’esperimento di Eilmer notiamo una cosa: perché un volo possa dirsi veramente tale anziché una “caduta con stile” (cit.) è necessario e quasi inevitabile che il velivolo abbia una coda.

La cosa non dovrebbe sorprendere, dato che anche in natura si applica la medesima cosa:

Ma a cosa serve effettivamente una coda?

Serve, per citare paro paro dai testi, a “bilanciare il momento sull’asse di beccheggio generato dall’azione della forza peso e della portanza aerodinamica“.

Cosa vuol dire?

Cercherò di spiegarlo in termini più semplici possibile, eventuali conoscitori che dovessero leggere spero mi perdoneranno le grossolane semplificazioni e approssimazioni.

Tutti gli oggetti hanno un peso, questo lo sanno tutti.

Ora, se è vero che ogni parte di un oggetto ha una propria massa (il nostro braccio ha meno massa della nostra gamba, tanto per esempio) è anche vero che, se parliamo di un oggetto sospeso (che non ‘poggia‘ da nessuna parte, diciamo) possiamo far finta che tutta la massa sia concentrata in un singolo punto, ben specifico, del nostro oggetto.

Il punto in questione è detto baricentro ed è, potremmo dire, il punto in cui “si concentra” la forza peso del velivolo.

In realtà questo vale soltanto come prima approssimazione perciò state tranquilli – chi progetta gli aeroplani sa benissimo che la massa di un oggetto è distribuita su tutto l’oggetto, potete quindi salire tranquillamente sull’aereo che stavate per prendere; questa approssimazione però per gli scopi di questo articolo è sufficiente.

L’altra forza molto importante che agisce sul velivolo è la portanza. 

La Portanza è la forza generata dal movimento delle ali attraverso l’aria.

Le ali di un velivolo (ma vale anche per gli uccelli) sono infatti sagomate in modo tale che quando si muovono attraverso l’aria questa viene deviata, generando (per un fenomeno che non spiegherò qui dato che ci dilungheremmo troppo) una spinta verso l’alto.

Questa spinta viene chiamata appunto portanza.

Come per la forza peso, la portanza è in realtà una forza distribuita in questo caso sulla superficie dell’ala – però anche qui possiamo approssimarla come forza agente su un solo punto, un punto che si trova di solito un po’ più avanti del punto mediano dell’ala e che viene chiamato centro di pressione.

Ora, guardate lo schema qui sotto:

Schema semplificato delle forze che agiscono sul piano verticale di un velivolo.

La freccia che va verso il basso, con la lettera W, è il peso.

La freccia che va in alto con etichetta Lw è la portanza dell’ala.

Come vedete, la portanza agisce in un punto dell’aereo che non è il baricentro (di solito è più avanti).

E questo fa sì che l’aereo cercherà di alzare il muso (cabrare), il che è un problema perché cabrando troppo le ali non riescono più a generare portanza – una condizione che viene chiamata “stallo” e che rende l’aereo non più in grado di volare.

Ci sono varie possibili soluzioni per questo ma la più semplice ed efficace, e quindi la più usata, è aggiungere una piccola ala un po’ più indietro che generi a sua volta portanza.

Nello schema, la portanza generata da questa piccola ala è la freccia Lt.

Questa portanza è assai minore di quella dell’ala, ma dato che è esercitata sulla coda dell’aereo (che è apposta costruita per mettere una certa distanza o “braccio” tra Lt e il baricentro) riesce a compensare la tendenza del velivolo a cabrare. 

Questa che ho descritto è una situazione molto semplificata: in realtà la posizione del centro di pressione cambia in funzione di cosa l’aereo sta facendo e quindi serve poter cambiare l’intensità di Lt – ma qui andremmo a parlare di come un velivolo manovra e diventerebbe un discorso lunghissimo.

Se qualcuno fosse interessato, alla fine di questa serie di articoli includerò una piccola bibliografia di fonti per approfondire l’argomento.

Nota bene che fin dagli albori dell’aviazione sono stati teorizzati e talvolta realizzati anche velivoli che non hanno coda quale ad esempio l’odierno bombardiere strategico Nortrhop-Grumman B-2 Spirit:

In ambito soprattutto militare questa architettura (detta “Ala volante”) viene talvolta usata in quanto offre diversi vantaggi soprattutto per quel che riguarda l’osservabilità del velivolo sui radar nemici.

Il prezzo di questa soluzione è che il controllo del velivolo diventa molto più complicato.

Anche qui, si tratta di un argomento molto interessante ma che non approfondiremo.

 

 

Ornitotteri e viti aeree: gli studi sul volo di Leonardo da Vinci

Nato nel 1452 a Firenze, Leonardo da Vinci è probabilmente uno dei sapienti più noti della storia umana.

Sulla sua figura si è scritto e narrato molto ed esistono innumerevoli studi che esplorano il suo contributo all’arte, alla scienza ed in generale alla conoscenza umana.

Leonardo ebbe, nella modesta opinione di chi scrive, una grande forza che fu anche in un certo senso la sua “debolezza” ovvero la sua incapacità di limitare la propria mente focalizzandosi su un singolo campo.

Leonardo spaziò dalla pittura alla scultura all’architettura mentre al tempo stesso faceva profonde e dettagliate osservazioni sulla natura e si cimentava nella progettazione di macchine che per l’epoca erano del tutto inaudite.

Questo suo spaziare ha fatto sì che il suo contributo in ciascun singolo campo fosse relativamente limitato – ma al tempo stesso, la sua capacità di collegare ed applicare le sue conoscenze in settori diversi ha anticipato di molto i moderni approcci multidisciplinari e gli ha permesso di avere intuizioni che anticipavano i tempi di decenni se non di secoli.

Forse non realizzò quanto altri nella propria vita, ma il suo lavoro fu di base ed ispirazione per molti che vennero dopo.

A posteriori possiamo dire che era pressoché inevitabile che l’attenzione di questo pioniere fosse attirata dal sogno del volo.

Leonardo fu, anzitutto e soprattutto, un acuto ed appassionato osservatore della natura.

I suoi studi sul volo quindi partirono dall’osservazione del modello naturale, ovvero gli uccelli.

(questo, per inciso, spiega perché Leonardo non si occupò di aerostati: la Natura offre numerosi e mirabili modelli per il volo aerodinamico, tra uccelli insetti e perfino qualche mammifero, ma non offre alcun esempio di volo aerostatico).

La profondità della sua intuizione si rivela in questa nota, scritta in uno dei suoi tanti quaderni:

L’uccello è strumento oprante per legge matematica, il quale strumento è in potestà dell’omo poterlo fare con tutti li sua moti, ma non con tanta potenzia (ma solo s’astende nella potenza del bilicarsi)1 ; adunque diren che tale strumento composto per l’omo non li manca se non l’anima dello uccello, la quale anima bisogna che sia contraffatta dall’anima dell’omo.“.

Leonardo nel XV secolo comprende e mette in forma compiuta qualcosa che i suoi predecessori avevano forse intuito: che il volo degli uccelli non è “miracolo” o “segreto” perché l’uccello risponde alle medesime leggi fisiche e matematiche cui risponde l’uomo – ed è quindi facoltà dell’uomo di studiarlo, capirne il funzionamento e replicarlo a modo proprio.

Le osservazioni fatte da Leonardo sul volo degli uccelli sono notevoli, specie se consideriamo che all’epoca non c’erano certo i mezzi di osservazione odierni.

Leonardo nota e annota accuratamente il modo in cui gli uccelli variano la posizione dell’ala per manovrare, studia l’anatomia di ossa e muscoli per capirne i movimenti.

Studi di Leonardo da Vinci circa l’anatomia delle ali degli uccelli

Leonardo nota anche come gli uccelli usino la propria coda per bilanciarsi in volo (cosa molto importante, come spiegato sopra).

Tutti queste osservazioni lo portano ad ipotizzare due possibili macchine volanti propulse dalla forza muscolare umana.

La prima è la vite aerea, predecessore almeno a livello concettuale degli elicotteri:

Appunti di Leonardo da Vinci per la vite aerea

La seconda ipotesi di Leonardo riguardava invece una macchina volante ad ala battente: un ornitottero.

Schizzi di Leonardo da Vinci per l’ornitottero
Modello in grandezza umana di ornitottero leonardesco, esposto al Museo Aerospaziale di Washington (Air and Space Museum)

Ora, la domanda viene facile: avrebbe veramente potuto volare, questa macchina?

La risposta è probabilmente no.

Forse, anzi probabilmente, avrebbe potuto funzionare come aliante – ma un uomo non è forte e resistente a sufficienza da poter volare sbattendo delle ali.

Non ci deve stupire questa constatazione, dopo tutto la comprensione di Leonardo delle forze aerodinamiche era una comprensione empirica, anche superficiale volendo – del resto sarebbe ingeneroso aspettarsi che un uomo del XV secolo potesse elaborare, da solo, una comprensione rigorosa di qualcosa che ancora oggi richiede molte ore di tempo dei più veloci calcolatori per essere modellata con cura.

Gli strumenti matematici che permetteranno di modellare le forze aerodinamiche appariranno solo secoli dopo Leonardo e bisognerà aspettare ancora più a lungo perché appaiano gli strumenti tecnologici che permetteranno di validare i modelli.

Tuttavia Leonardo fu il primo a comprendere, seppure in modo imperfetto, che era possibile controllare e dirigere una macchina volante variando la curvatura delle ali.

450 anni dopo il Flyer I dei fratelli Wright utilizzerà questo esatto principio.

 

Aria, fuoco e vuoto: i pionieri del volo aerostatico

Dopo Leonardo vi fu una sorta di “pausa” nelle ricerche sul volo – o forse semplicemente nessuno di coloro che proseguirono questi studi ha lasciato traccia.

Quel che non si arrestò fu la ricerca sulla natura e comportamento dell’aria e dell’atmosfera, ricerca che era iniziata già ai tempi di Aristotele e che conobbe una notevole accelerazione grazie all’introduzione del metodo scientifico sperimentale, fondamentale scoperta di Galileo Galilei che forse più di ogni altra singola idea nella Storia ha contribuito al progresso dell’Umanità.

Nel 1643 Evangelista Torricelli, discepolo di Galilei, dimostrò grazie al barometro da lui stesso inventato l’esistenza della pressione atmosferica; la scoperta che l’aria, apparentemente immateriale e ‘neutra’, esercitasse costantemente una forza su tutto ciò che toccava fu per l’epoca rivoluzionaria e spinse molti altri a cercare possibili applicazioni.

Torricelli esegue il proprio esperimento

Pochi anni dopo Otto Von Guericke, sindaco di Magdeburgo, grazie al finanziamento del Principe Elettore Hohenzollern di Brandeburgo compì approfonditi studi sulla creazione del vuoto atmosferico.

Nel 1654, sotto gli occhi della Dieta Imperiale riunita a Ratisbona, Von Guericke utilizzò un apparecchio di propria creazione per creare il vuoto entro una sfera formata da due semisfere di bronzo unite da una rudimentale guarnizione.

Le due “Sfere di Magdeburgo” furono poi attaccate a due pariglie di otto cavalli che tentarono invano di separarle.

Esperimento delle Sfere di Magdeburgo

Questo esperimento dimostrò una volta per tutte che non solo l’aria poteva “lavorare” ma che se ben controllata la sua forza poteva essere enorme.

E se l’aria, da sola, poteva resistere al tiro di sedici cavalli, perché mai la stessa aria non avrebbe dovuto poter sollevare in volo un oggetto o una persona?

Si trattava, pensarono alcuni, solo di farla lavorare nel modo corretto.

La prima applicazione, puramente teorica, della scoperta di Von Guericke al volo risale al 1670 ad opera del gesuita italiano Francesco Lana De Terzi, che teorizzò una nave volante basata su quattro sfere metalliche in cui doveva essere creato il vuoto.

Ipotesi di Lana De Terzi per la nave volante

La Nave Volante doveva essere equipaggiata con quattro sfere di rame sottile, ciascuna di 7,5 metri di diametro, ed una navicella di vimini o legno leggero.

Nei calcoli di Lana De Terzi questa nave avrebbe dovuto poter trasportare 6 persone, o un carico equivalente.

Benché il principio fisico fosse perfettamente corretto Lana De Terzi non tentò mai, per quel che sappiamo, di realizzare anche solo a livello sperimentale la propria idea, un po’ per il proprio voto di povertà che gli impediva di raccogliere e spendere la somma necessaria ed un po’ perché, correttamente, ipotizzò che delle sfere di rame o di qualsiasi metallo allora noto che fossero abbastanza sottili da non pesare eccessivamente sarebbero state troppo fragili per sostenere la pressione esterna – e sarebbero quindi istantaneamente collassate.

Quest’ultimo problema ha finora impedito la realizzazione pratica di aerostati a vuoto; tuttavia ricerche svolte a partire dal 2021 sulle possibili applicazione di alcuni materiali compositi di nuova realizzazione quali il grafene hanno portato per la prima volta a ipotizzare che tali aerostati potrebbero essere effettivamente realizzabili.

Pochi anni dopo Lana De Terzi un altro sacerdote, Bartolomeu Lourenço de Gusmão, sviluppò il progetto di una nave volante detta “Passarola“. Gusmão era nato in Brasile e, trasferitosi da adulto in Portogallo, grazie ad alcuni agganci a corte aveva avuto modo di attirare le attenzioni di re Joao V il Magnanimo. Il re, appassionato egli stesso di fisica e di scienza, era rimasto ben impressionato dall’intelligenza di Gusmão e gli aveva concesso una generosa sovvenzione per sviluppare la propria ricerca.

Le notizie che abbiamo sull’effettivo principio in base al quale la “Passarola” sarebbe dovuta funzionare sono purtroppo frammentarie e contraddittorie – una ipotesi vorrebbe che Gusmão avesse tentato di realizzare un sistema di sollevamento basato su magneti e barre metalliche senza realizzare mai nulla di pratico (questo sistema del resto non avrebbe mai potuto funzionare), mentre altre cronache parlano di un rudimentale pallone aerostatico riempito di aria calda per mezzo di un braciere sospeso, una cui versione in miniatura sarebbe stata fatta volare di fronte alla Corte in un momento imprecisato tra il 1709 e il 1720.

Gusmão purtroppo attirò ad un certo punto le attenzioni dell’Inquisizione per le proprie ricerche.

Le sue carte ed i suoi esperimenti furono distrutti forse dagli Inquisitori o forse da Gusmão stesso il quale tentò (pare) di fuggire in Austria dove aveva amicizie; per motivi imprecisati però finì col fermarsi in Spagna ove morì pochi anni dopo durante un’epidemia, povero e dimenticato.

Qualche decennio dopo la sua morte il Portogallo, nel tentativo di attribuirsi l’invenzione dei palloni aerostatici, rispolverò e senza dubbio “abbellì” la storia di Gusmão.

Vista la travagliata storia di Gusmão difficilmente potremo mai sapere quanto effettivamente questo ricercatore fu veramente pioniere del volo; nondimeno, la sua figura merita a mio parere di essere quanto meno citata in questo articolo.

In ogni caso ormai l’idea che fosse possibile realizzare un vascello “più leggero dell’aria“, che volasse grazie alla pressione dell’atmosfera, era ormai ben presente tra i ricercatori dell’epoca.

E grazie al lavoro dei chimici i mezzi per realizzare questi vascelli stavano per diventare realtà.

Nel 1766 infatti il britannico Henry Cavendish scoprì l’esistenza di un gas che chiamò “aria infiammabile”, notando che questo gas era estremamente reattivo e decisamente più leggero dell’aria.

Nel 1783 Antoine Lavoisier elaborando la ricerca di Cavendish battezzò il gas “Idrogeno” e sviluppò un metodo per estrarne rapidamente grandi quantità facendo reagire vapore acqueo con lamine di ferro incandescenti.

Macchina di Lavoisier per la produzione di idrogeno.

 

Quel gas, benché pericolosamente infiammabile, era quanto di più vicino al vuoto l’uomo fosse in grado di produrre – e, era facilmente deducibile, avrebbe permesso di aggirare i limiti costruttivi che impedivano di realizzare le sfere a vuoto.

Diversi ricercatori dotati di buoni finanziamenti si misero al lavoro per tentare di mettere in pratica questo principio.

Tuttavia nel frattempo, senza particolare fanfara, qualcun altro stava percorrendo un’altra strada per arrivare allo stesso traguardo.

E furono proprio costoro ad entrare nella Storia come pionieri del volo umano, come vedremo nel prossimo articolo.

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