Perché non è una Mary Sue – Tributo a River Song

Simpatica, dinamica, intraprendente e… spoiler!
In due sole parole, River Song.
Ci voleva una mente geniale per partorire un personaggio come il suo e con una timeline tale da costringere a mettere bene in moto i neuroni per poter riunire tutte le tessere del puzzle. Ci voleva una mente geniale e l’abbiamo avuta: quella di Moffat. A volte odiato, troppo spesso incompreso, soprattutto da coloro che pretendono trame piatte ed autoconclusive che non obbligano a troppi ragionamenti; molto spesso – ed è il mio caso – amato alla grandissima, proprio per i suoi arzigogoli e perché ha saputo regalare a Doctor Who alcuni tra gli episodi più incredibili, per non parlare della nona stagione appena conclusa, giudicata dalla maggior parte del fandom come una delle più epiche in assoluto, compreso lo speciale di Natale che bollare come strappalacrime è fin troppo riduttivo.

River Song, dicevamo.
Ora la sua storia è finalmente completa e chi non s’è commosso nemmeno un po’ ha un cuore come quello dei Dalek.


Tra tutta la moltitudine dei personaggi che ha affiancato il Doctor a mio avviso River Song è quello meglio riuscito, perché unisce in sé l’icona di una companion alla propria essenza strettamente fantascientifica. “Figlia del Tardis”, rapita dal Silenzio, assoldata per uccidere il Dottore, lo incontrerà in svariate avventure nel tempo e nello spazio e nell’ultima si immolerà per il Doctor, morendo così com’è vissuta, con un sorriso furbo sulle labbra e la parola “spoiler” come proprio marchio di fabbrica.
La donna che avrebbe dovuto uccidere il Dottore diventa colei che invece salvò la vita al Dottore, un paradosso temporale da far venire il mal di testa, almeno in apparenza, poiché non appena la sua timeline ci viene delineata anche gli indizi che sono stati dati lungo l’arco narrativo di ben cinque stagioni diventano immediatamente luminosi e semplici.
Di River Song amo tutto, ed in parte le invidio la fisicità prorompente di Alex Kingston. Mi piace il suo spirito intrepido, il suo tormento interiore man mano che si rende conto che la verità su se stessa verrà presto svelata al Doctor e ai Pond, il suo essere tutta per il Dottore senza mai perdere la propria indipendenza.
Sembra un personaggio semplice, River, eppure quanta malinconia traspare dai suoi occhi quando ne L’astronauta impossibile dice a Rory “verrà il giorno in cui lui non mi riconoscerà ed io ne morirò”.
La strizzata d’occhi allo spettatore è di quelle micidiali, perché nel gioco narrativo di Moffat i personaggi ne sanno meno di colui che li osserva, ma al tempo stesso questi ultimi non sanno tutto nei minimi dettagli. Gli incontri di River con il Dottore sono tessere di un mosaico di cui già ci sono state date le linee principali ed il finale, ma di cui ci viene taciuto il percorso.
L’unica pecca che riconosco nella storia di River è la sua redenzione troppo, decisamente troppo veloce e cinque minuti di narrazione in più, in Let’s Kill Hitler, fatta a dovere, non avrebbero fatto male a nessuno, tantomeno alla trama. Una virata un tantino troppo esagerata, sicuramente forzata, che andava spiegata meglio nel suo perché.
Questo tuttavia non intacca il personaggio.
Come la maggior parte delle donne presenti in Doctor Who, anche River Song è l’anti-Mary Sue. Credo che, insieme a Sarah Jane Smith, possa tranquillamente conquistarsi il primo gradino del podio nella gara di anti-Marysuaggine.


Non necessita di essere continuamente salvata e con una pistola in mano – evidente omaggio al Far West anche in alcuni aspetti del suo abbigliamento – sa tenere testa a chiunque, perfino ad un Dalek tutto tremante che dinanzi a lei non esita a chiedere pietà. Ciò nonostante la sua indipendenza sa intrecciarsi romanticamente con il Doctor senza cadere nello sdolcinato gratuito. Basti richiamare alla memoria il discorso accorato che gli fa prima di “sposarlo” in quella sorta di realtà alternativa fatta di tempo fermo su se stesso. River ama il Dottore, lo ama come fa una donna innamorata che lotta con tutte le sue forze, anche a costo di fermare il tempo e non è meno forte in questo amore rispetto ai momenti in cui impugna un’arma.
Il sacrificio finale è l’apoteosi del suo personaggio, disposto a perdere la propria vita, perché solo così facendo verrà garantito al Dottore quel futuro che lei ha già vissuto ed amato. Non è annullamento di sé, non è un lasciarsi morire e basta, è un mettere al sicuro la vita altrui tramite la propria morte. È un ultimo regalo, fatto con il sorriso sulle labbra.
Ed il Dottore, l’alieno umano di Gallifrey, colui che “in novecento anni di spazio e tempo non ha mai conosciuto nessuno che non fosse importante”, non può che rimanere colpito da una donna come River Song. Nel salvataggio disperato di Ten vediamo gli albori di un Eleven che ha sempre odiato i finali; scorgiamo quella riconoscenza che presto si muterà in amore anche per lui. A chi nega questa evidenza propongo di rivedersi The Name of the Doctor, con quell’accorato addio che non ne vuole sapere di essere tale perché fa male ad entrambi. Oppure – e qui mi scappa lo spoiler! – l’ultimo speciale natalizio andato in onda, The Husbands of River Song, in cui i giochi di sguardi e di parole ci raccontano di un amore che sa attraversare letteralmente il tempo e lo spazio senza mai cadere nella minima banalità.
E scusate se è poco, nell’epoca delle tot sfumature di nulla e delle adolescenti mary-suesche innamorate di vampiri e simili.
Grazie, Moffat, grazie mille volte per averci regalato River Song.

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2 commenti

  1. Oh my Gallifrey. Non avrei potuto descrivere River Song meglio di come hai fatto tu. Articolo meraviglioso. C’è scappata pure la lacrimuccia.
    Grazie cara.

  2. Hai descritto River in maniera sublime, concordo con la socia, spiegando al meglio il suo difficile e intricato viaggio! Grande Kia!

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